Lo heartland della ‘ndrangheta

Lo heartland della ‘ndrangheta

Lo heartland della ‘ndrangheta

Le ‘ndrine non si sono dimenticate delle origini.
La carta inedita della settimana è sulle ramificazioni della ‘ndrangheta in Calabria, sua terra d’origine.
Una delle peculiarità del fenomeno mafioso ‘ndranghetista è che l’estensione del suo raggio d’azione al Nord Italia e all’estero non ha allentato il rapporto con la regione dove si è generata. Come testimoniano le 7 amministrazioni comunali sciolte per mafia tra luglio e novembre 2017, la ‘ndrangheta non si è dimenticata delle origini.
La ‘ndrangheta odierna allo scontro preferisce la collaborazione, sia tra cosche di aree diverse, sia tra queste e il potere politico. L’organizzazione criminale è multiforme, con parti che si specializzano in un determinato business, adeguando il proprio modello imprenditoriale al settore specifico in cui operano.
Similmente a Cosa Nostra, la ‘ndrangheta suddivide il territorio in mandamenti – “locali” nel gergo delle ‘ndrine, anche se rispetto alla mafia siciliana la suddivisione del potere è molto più orizzontale e meno verticista. Il mandamento Centro ha intessuto strategie criminali dal marcato carattere “affaristico”, infiltrandosi nei gangli dell’apparato politico-amministrativo. Il mandamento Jonico si occupa della gestione dei flussi transnazionali di stupefacenti e si è dimostrato capace di influenzare le procedure di appalto pubblico. Il mandamento Tirrenico, infine, ha saputo stabilire un florido rapporto con l’omologo siciliano e, probabilmente, anche con settori della destra eversiva e della massoneria deviata. Reggio Calabria è il tradizionale comando strategico e Vibo Valentia si è ritagliata un ruolo di primo piano come centro operativo ‘ndranghetista.
Le cosche locali hanno stabilito connessioni intense con quelle attive nel capoluogo regionale e nella piana di Gioia Tauro, un’area dove l’attore mafioso pare essere egemonico. La vicenda dell’unico termovalorizzatore della regione, influenzata dagli ‘ndranghetisti dalla costruzione alla gestione dell’impianto ultimato, è solo l’ultimo esempio della pervasività della mafia locale nella piana di Gioia.
Al rafforzamento della presenza in patria si abbina l’espansione su scala globale. La mafia calabrese fa scuola anche fuori dai propri confini tradizionali. È la ‘ndrangheta International, un modello esportato non solo in aree istituzionalmente fragili, come l’Europa dell’Est, ma anche in Svizzera, Spagna, Francia, Germania e Paesi Bassi. Stati più solidi ma non abituati a confrontare il fenomeno mafioso, attraenti agli occhi della ‘ndrangheta perché consentono di mantenere una presenza discreta in virtù della storica emigrazione italiana e di una fiscalità favorevole.
La storica presenza italiana in Canada e Australia fornisce simili garanzie di mimetizzazione anche oltreoceano.
Dati tratti dalla relazione del ministro dell’Interno al parlamento sulle attività della Direzione investigativa antimafia, secondo semestre 2017.

Carta a colori di Laura Canali in esclusiva per Limesonline.

Carta di Laura Canali - 2018

 

LA ’NDRANGHETA ALLA CONQUISTA DEL NORD

Decenni di stereotipi sulla mafia come fenomeno meridionale hanno occultato l’inesorabile avanzata delle cosche nel Settentrione, soprattutto in Lombardia. Il mimetismo delle ’ndrine. Responsabilità di politici e imprenditori. Forse il vento sta cambiando.
1. IL 13 GENNAIO 1994 LA COMMISSIONE Antimafia approvava un documento predisposto dal senatore Carlo Smuraglia dal titolo «Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti e organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali». Solo quell’anno il parlamento italiano era stato in grado di discutere su insediamenti e infiltrazioni dei mafiosi nelle regioni dell’Italia settentrionale. L’approvazione unanime colmava uno storico ritardo culturale e d’analisi.
Fino a quella data era prevalsa la convinzione, molto diffusa, che la mafia fosse solo quella siciliana e che fosse attiva solo nell’isola. Fu a partire dalla X legislatura, con la presidenza del senatore Gerardo Chiaromonte, che la commissione Antimafia poté superare i confini della Sicilia e spaziare in Calabria, in Campania e nel resto d’Italia.
Dobbiamo porci due domande: è ancora possibile usare la definizione di «aree non tradizionali» quando ci riferiamo alle regioni del Nord? E quale tra i due termini – insediamenti e infiltrazioni – è più corretto adoperare?
Credo che la definizione «aree non tradizionali» non sia più adatta perché è superata da una realtà profondamente mutata, purtroppo in peggio: già allora presentava una certa ambiguità. Il termine più esatto a far comprendere quanto è accaduto nel corso degli ultimi decenni è quello di insediamento e, ancor più, di radicamento.
L’estate scorsa, per l’esattezza il 23 luglio 2010, si concludeva l’operazione congiunta delle direzioni distrettuali antimafia di Milano e Reggio Calabria definita «Crimine». Le migliaia di pagine scritte, le intercettazioni, i filmati, le innumerevoli foto hanno squadernato una realtà che a taluni è apparsa sconvolgente. Ci sono stati 300 arresti in un solo giorno. Sono tanti, ma ancor più rilevanti sono risultati i livelli di penetrazione e di radicamento raggiunti dalla ’ndrangheta a Milano e in Lombardia – anzi in una parte della Lombardia, perché ci sono province, come quelle di Brescia e di Varese, che non sono state toccate. Né sono state toccate le altre regioni del Nord. Solo la Liguria e il Piemonte sono state appena lambite.
Eppure, come si sa da tempo, la ’ndrangheta è presente in altre regioni del Nord, dove si divide territorio e affari con una rilevante componente della camorra casalese e con una discreta presenza di quel che resta della mafia siciliana, in forte difficoltà dopo il periodo stragista del 1992-1994. Quanto accaduto nell’estate del 2010 non è altro che la riconferma di tendenze e di presenze mafiose già attive negli anni passati, come evidenziato da pregresse iniziative della magistratura.
Tra il 1992 e il 1994 nelle regioni del Nord c’era stata un’imponente attività giudiziaria che aveva scombussolato clan storici delle mafie italiane, in particolare della ’ndrangheta, che già allora appariva agguerrita e presente in quelle realtà. Nella sola Lombardia erano finite in carcere 2 mila persone.
Qualcuno s’era illuso o aveva sperato che tali indagini avrebbero messo la parola fine alla presenza mafiosa in quelle realtà. Ma le sole attività repressive non sono mai state sufficienti, come dimostra la lunga storia del fenomeno mafioso. I magistrati da soli non possono risolvere definitivamente un problema così complesso come quello della presenza mafiosa in un territorio. Solo qualcuno, come il prefetto di Milano, s’attarda ancora a dire che le mafie non sono presenti in città. Gli osservatori più avveduti, gli studiosi, gli operatori del settore sanno che, se per vari motivi è stato possibile farlo in passato, oggi non si può più negare l’evidenza.
Semmai bisogna chiedersi quando, come e perché le mafie siano arrivate al Nord e porsi un interrogativo che per alcuni è difficile accettare anche solo come ipotesi: quali siano state nel passato e quali siano ancora oggi le responsabilità delle classi dirigenti settentrionali. La penetrazione e il radicamento hanno raggiunto un livello tale da chiamare in causa direttamente le complicità e le responsabilità di settori economici e politici del Nord.
2. Le presenze mafiose al Nord non sono una scoperta dei giorni nostri, ma risalgono a svariati decenni fa. Le mafie sono arrivate a quelle latitudini ben presto, sull’onda del cosiddetto boom economico. Il calabrese Giacomo Zagari, capo del «locale» di Varese, arriva nel 1955. Poco dopo gli uomini della ’ndrangheta si troveranno in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria. Altri nel corso del tempo scelgono regioni come l’Emilia-Romagna, la Toscana o il Veneto. Vanno dappertutto avendo come bussola la possibilità di far soldi.
Arrivano alla spicciolata: non c’è stata un’invasione tale da creare allarme o preoccupazione. All’inizio sono in pochi ad accorgersi, molti non ci fanno caso. La gran parte si concentra nelle regioni del triangolo industriale perché all’epoca era un’area che calamitava il lavoro e richiedeva braccia dal Sud; in quel periodo molti mafiosi avevano bisogno di lavorare e dunque arrivarono al Nord e si mimetizzarono con i loro corregionali.
Altri non sono arrivati di loro spontanea volontà, ma perché inviati al soggiorno obbligato da una legge dello Stato. Dal 1961 al 1972 – anni cruciali per l’impianto dei mafiosi – erano presenti in Lombardia 376 soggiornanti, in Piemonte 288, in Emilia-Romagna 246, in Toscana 228. In tutto 1.138 mafiosi solo in queste regioni. Alcuni erano figure di primo piano; altri, sconosciuti ai più, erano invece molto conosciuti e temuti nelle loro zone d’origine.
Ci fu una forte opposizione all’invio di mafiosi nei comuni del Nord. Protestarono i sindaci di tutti i partiti, anche quelli della Dc e del Psi (al tempo partiti di governo), perché non volevano sul loro territorio criminali mafiosi ai quali toccava anche assicurare un alloggio. Protestò il deputato comunista Pio La Torre, che già nel 1978 aveva individuato quali caratteristiche avrebbe assunto il problema negli anni a venire: «La commissione Antimafia ha dimostrato che l’istituto del soggiorno obbligato si è rivelato controproducente. (…) Sembra che si sia voluto costruire una rete criminale attorno alle metropoli del Nord. La mafia, d’altro canto, ha potuto sfruttare lo stato di disagio di una parte degli emigrati meridionali che, arrivando al Nord, incontrano difficoltà a inserirsi nelle attività produttive e non trovano un adeguato tessuto democratico e associativo in grado di assisterli».
La Torre rilevava come i mafiosi usassero in modo strumentale il disagio dei meridionali che spesso erano ghettizzati nelle periferie, discriminati, fatti oggetto di manifestazioni razziste. Rimane ancora nella memoria di molti meridionali la scritta che si poteva leggere in alcuni annunci di locazione di immobili: «Non si affitta ai meridionali». Posso testimoniare d’averli letti a Torino sul finire degli anni Sessanta, quando ero un giovane studente universitario proveniente dalla Calabria, che allora non aveva una sede universitaria.
Accanto a questo fenomeno ve ne fu un altro che tardò a essere compreso e, dunque, non fu valutato nei suoi effetti dirompenti. La novità fu la scelta strategica operata dalla ’ndrangheta che, contrariamente a Cosa nostra e alla camorra (presenti al Nord con una robusta rappresentanza), decise di spostare pezzi delle ’ndrine (famiglie mafiose) e di farle stabilmente risiedere nelle regioni settentrionali.
Una scelta consapevole, strategica, di lungo periodo che si confuse con l’emigrazione. In fondo, dissero alcuni, si spostavano famiglie per venire al Nord. Cosa c’era di male? Niente, se non fossero state famiglie di ’ndrangheta. Quel fenomeno nascondeva una precisa decisione maturata nei conciliaboli ’ndranghetisti e l’emigrazione o gli emigrati non avevano alcuna colpa.
3. Se molti non s’accorsero di quanto stava accadendo, altri – in particolare coloro che erano espressione degli ambienti finanziari e dell’imprenditoria legata all’edilizia – compresero la portata del fenomeno e non solo non lo contrastarono, ma lo incoraggiarono accogliendo di buon grado i mafiosi. Pensarono di uti­lizzarli per garantire la sicurezza sui cantieri e il controllo degli operai che, con l’aiuto dei sindacati, chiedevano salari adeguati e orari di lavoro meno massacranti. La tranquillità sui cantieri ebbe un costo sociale molto elevato, che pagò l’intera collettività.
Chi aveva interesse a intrattenere rapporti con i mafiosi ovviamente non aveva alcun desiderio di far conoscere questa realtà e dunque minimizzò la portata e l’importanza della presenza malavitosa, che nel frattempo cominciò ad arricchirsi entrando nel più grande affare della criminalità organizzata di tutti i tempi, il traffico degli stupefacenti.
In quel periodo operavano al Nord mafiosi che s’arrabattavano in cerca di opportunità per fare soldi e altri più intraprendenti che i soldi li facevano a palate con gli stupefacenti, settore in cui investivano il denaro ricavato con i riscatti dei sequestri di persona. Man mano che crescevano i guadagni del traffico di droga, diminuivano i sequestri, fino a terminare del tutto: la loro funzione di accumulazione del denaro da investire s’era oramai esaurita.
Al Nord, prevalsero e circolarono ad opera di settori della borghesia settentrionale idee, discorsi e stereotipi che hanno avuto cittadinanza nel Sud, dove erano stati creati dalla borghesia mafiosa a presidio della propria intangibilità. La mafia non esiste: lo si disse a lungo in Sicilia, lo si scimmiottò al Nord. La mafia esisteva solo al Sud, dov’era nata in aree arretrate, malfamate, povere, miserabili. Un fenomeno con queste caratteristiche non poteva arrivare e tanto meno attecchire in un Nord ricco e opulento. Con queste idee si rassicurarono i cittadini del Nord, i quali furono convinti che comunque quel fenomeno violento e criminale non avrebbe mai potuto interessarli direttamente.
Era vero l’esatto contrario: le mafie potevano sopravvivere e svilupparsi proprio laddove c’erano i soldi perché uno dei capisaldi dell’essere mafioso è quello di guadagnare denaro – l’altro è rappresentato dall’esercizio del potere su un determinato territorio. Si argomentò anche che, in ogni caso, era meglio non parlare di mafia perché si rischiava di compromettere l’immagine della regione, del comune, della città provocando un danno al turismo e a tutta l’economia.
Si affermò che la mafia era un problema squisitamente criminale che andava affrontato con la repressione più dura e determinata, che mafia significava violenza e omicidi, in mancanza dei quali non si poteva parlare di mafia. Siccome al Nord i morti ammazzati per mano mafiosa hanno raggiunto, tranne che in periodi ben precisi, cifre irrisorie, la conseguenza del ragionamento era del tutto evidente: non ci sono omicidi, dunque non c’è nemmeno la mafia.
Queste idee formarono una cappa ideologica che impedì di percepire il progredire della penetrazione malavitosa; furono isolati coloro che cercavano di mettere in guardia contro l’avanzare della mafia, anzi delle mafie perché nel frattempo oltre alla mafia siciliana prendeva piede la camorra e, ancor più, la ’ndrangheta, destinata a dominare in quest’ultimo ventennio.
La ’ndrangheta fu avvantaggiata dalla sua struttura interna, basata sulla famiglia naturale del capobastone, che permise l’invio in tutte le regioni del Nord di nuclei familiari che tra di loro continuavano a essere collegati come i punti d’una rete.
L’interesse prevalente degli uomini di ’ndrangheta fu rivolto alle attività economiche. Cominciarono a occupare segmenti dell’economia senza destare allarme sociale, che di solito si crea a seguito d’un omicidio o d’un altro fatto di sangue. L’edilizia fu – ed è ancora – il settore dove maggiore risulta l’inserimento mafioso: subappalti, trasporto materiale inerte, presenza nelle cave, gestione della manodopera.
Un intero comparto economico in alcune aree del Nord è quasi del tutto in mano alla ’ndrangheta, un intero ceto sociale – quello dei padroncini, come in Lombardia vengono chiamati i trasportatori – è stato sostituito, con le buone o con le cattive, dagli uomini della ’ndrangheta.
Con il passare del tempo costoro hanno acquistato bar, ristoranti, pizzerie, alberghi, supermercati, capannoni industriali, immobili vari. Con il prestito a usura si stanno sostituendo agli antichi proprietari in attività commerciali o imprenditoriali. Sono attivi nel campo della sanità e in quello dei rifiuti, sponsorizzano squadre di calcio o altre attività sportive, apparentemente vivono una vita normale e arrivano a mostrare la loro dubbia religiosità andando a messa o facendo offerte più o meno sostanziose alle parrocchie. Non vogliono salvarsi l’anima, ma acquisire invisibilità e benemerenze.
4. Gli ’ndraghetisti partecipano all’attività politica votando e facendo votare. Il mondo politico lombardo è risultato permeabile al condizionamento della ’n­drangheta. Nell’operazione crimine sono risultati coinvolti 6 consiglieri regionali, 5 del Pdl e 1 della Lega Nord, anche se per i magistrati non hanno commesso reati. Ma qualcuno di loro è stato votato dalla ’ndrangheta, qualcun altro è stato filmato in compagnia di uomini d’onore calabresi senza che il loro rapporto fosse giustificato da un motivo plausibile. Anche decine di consiglieri comunali si sono trovati nella medesima situazione. Qualche sindaco è stato persino arrestato.
Il dato di fondo è che la politica lombarda non è stata in grado di difendere se stessa dalle infiltrazioni della ’ndrangheta e oggi appare confusa, frastornata, incapace di comprendere la portata di quello che è successo e di valutare i rischi per il futuro. La politica appare in sofferenza. A Bardonecchia, in provincia di Torino, primo comune sciolto per mafia nel 1995, s’è aggiunto nel marzo 2011 quello di Bordighera, in provincia di Imperia, guidato da una giunta di centro-destra.
Gli imprenditori del Nord – ecco l’altro grande problema emerso nelle indagini del luglio 2010 – oramai stabiliscono rapporti con ’ndranghetisti i quali sono conosciuti esattamente come può accadere in Calabria. È davvero sbalorditivo vedere con quanta facilità imprenditori lombardi chiamino gli uomini delle ’ndrine. La vicenda dell’industriale Ivano Perego e del fallimento della Perego strade, una delle imprese edili più grandi della Lombardia, è la conferma che quando si ha a che fare con il capitale mafioso, che si era accettato in un momento di difficoltà economica, inevitabilmente si finisce con l’avere a che fare con gli ’ndranghetisti e con i problemi che questi si portano dietro: in questo caso, la rovina dell’azienda.
Tutto ciò è avvenuto nell’ultimo quindicennio, un periodo caratterizzato dalla crescente finanziarizzazione dell’economia, da una rincorsa sfrenata all’arricchimento personale, da livelli di corruzione sempre più elevati, da un personale politico svincolato dalle ideologie e dalle appartenenze partitiche e votato solo alla carriera. C’è stato un proliferare di professionisti del Nord, che io definisco uomini cerniera – perché hanno messo in collegamento due mondi, inserendo i mafiosi nei salotti importanti dell’economia e dell’imprenditoria – che hanno dato indicazioni sugli affari più interessanti e su quali commercianti o imprenditori avessero bisogno di liquidità.
Nei primi mesi del 2011 è aumentata la consapevolezza dei pericoli anche in soggetti prima silenti. Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, in un convegno a Milano organizzato da Libera e alla presenza del suo presidente don Luigi Ciotti ha detto che «le opportunità connesse con il maggior sviluppo economico e finanziario del Centro-Nord inevitabilmente attraggono l’interesse delle cosche».
Quest’affermazione ribalta opinioni radicate al Nord. È un’affermazione importante, forse utile a scuotere un mondo – quello delle classi dirigenti settentrionali – che sinora non ha avuto la lungimiranza di salvaguardare il territorio dall’avanzata della ’ndrangheta, scegliendo per miopia e per ingordigia padronale la via dell’accordo e della convivenza.

GIOIA TAURO, L’ENNESIMA OCCASIONE SPRECATA

Il porto di Gioia Tauro, Calabria, febbraio 2014 (Foto: FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images).

Il porto di Gioia Tauro, Calabria, febbraio 2014 (Foto: FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images).

Il porto calabrese avrebbe tutti i requisiti per primeggiare nel Mediterraneo, ma criminalità, insipienza politica e mala gestione lo stanno affossando. Le strategie cinesi. I traffici illeciti. Forse siamo ancora in tempo.

1. Nel 2017 il porto di Gioia Tauro ha perso il primato della movimentazione dei container in Italia:rispetto all’anno precedente il decremento è stato dell’11%. Tradotto in numeri, significa che si è passati da 2,8 milioni di container movimentati nel 2016 a 2,5 milioni del 2017 1. I dati relativi ai primi mesi del 2018 confermano il calo, con una perdita di traffico del 33%. Il declino è lento, ma inesorabile: nel 2008 Gioia Tauro movimentava 3,5 milioni di teu (twenty-foot equivalent unit, un container lungo circa sei metri) ed era al primo posto nel Mediterraneo. Frattanto, il porto ben organizzato di Barcellona sta velocemente guadagnando quote di mercato con incrementi a due cifre. I cinesi, lanciati alla conquista del Mediterraneo, sono tuttavia interessati a utilizzare alcuni porti dell’Italia come terminali della «via della seta» marittima.

Per meglio inquadrare l’andamento negativo e cercare di delineare possibili scenari futuri occorre descrivere le funzioni storicamente svolte dal porto di Gioia Tauro nel mare nostrum. Tra le criticità figura il forte condizionamento esercitato dalle potenti famiglie criminali della piana di Gioia Tauro 2, ma anche la difficoltà dei collegamenti, essendo un’area periferica con un’arteria autostradale celebre per i lavori costantemente in corso. Inoltre, lo scalo commerciale si trova in una vasta area a scarsa vocazione industriale. La somma di questi fattori spiega il declino del porto calabrese. La conseguente disoccupazione (337 i licenziamenti di portuali nel luglio 2017), con scarsa possibilità di reimpiego, potrebbe ulteriormente ampliare le file della criminalità organizzata.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

 

Gioia Tauro è storicamente un porto di transhipment, cioè di trasbordo. Le grandi navi attraccano e il loro carico di container viene scaricato sulle banchine, quindi reimbarcato su navi più piccole (spesso con trasferimento diretto da nave madre a nave feeder), che possono raggiugere i porti minori, purché dotati di fondali e attrezzature adeguate. Per molti anni il porto di Gioia Tauro è stato lo hub delle merci del Mediterraneo.

Al futuro del porto è collegato il dibattito sull’istituzione di una Zona economica speciale (Zes). Le Zes sono aree circoscritte in cui si applica una legislazione economica diversa da quella vigente nel resto del paese, con agevolazioni fiscali e semplificazioni amministrative per le aziende. Di Zes si parla da anni; il cosiddetto decreto Sud varato dal governo nell’agosto 2017 e il suo decreto attuativo pubblicato in Gazzetta Ufficiale a fine febbraio 2018 sembrano aver finalmente sbloccato la situazione. La definizione di una grande Zes nella vasta area interna al porto di Gioia Tauro avrebbe tuttavia senso se collegata ad attività portuali. Si tratta comunque di un provvedimento tardivo, perché oggi il porto è in decino e l’effettiva entrata in vigore della Zes richiede qualche anno.


2. Il sistema portuale è storicamente punto d’incrocio del commercio lecito e del crimine, che nella globalizzazione assumono entrambi notevole rilevanza3. Quello di Gioia è il porto di «Coca Tauro»? Proviamo a sfogliare alcuni recenti comunicati stampa diffusi dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria inerenti i sequestri di cocaina effettuati nel porto in questione.

Nel 2017 sono state individuate e sequestrate complessivamente circa due tonnellate di cocaina4. La droga transitava verso altre destinazioni o si doveva fermare in Calabria? Nel secondo caso, la ’ndrangheta era dunque il distributore finale? Non è facile rispondere. Di certo c’è comunque l’entità dei sequestri: 218 chili di cocaina occultati in due diversi container caricati rispettivamente in Guatemala e nel Costarica, destinati ad Alessandria d’Egitto e alla Sicilia; 309 chili rinvenuti in un container che trasportava noci, proveniente dal Cile e diretto in Turchia; 220 chili rinvenuto in due container provenienti dal porto brasiliano di Santos, uno dei quali destinato a Ploče (Croazia).

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

L’intercettazione di ingenti carichi provenienti da navi di grandi dimensioni, trasbordati a Gioia Tauro e destinati ad altri porti, dimostra l’ottimo livello d’intelligence e di coordinamento tra investigatori e forze di polizia operanti sul territorio. La recente relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie presentata in Senato offre in poche righe un quadro di quanto accade nel porto calabrese: «Il porto di Gioia Tauro è uno dei crocevia del traffico di droga lungo le rotte che dal Sudamerica si proiettano in Europa. Le cosche egemoni nella Piana controllano le attività di gestione dei servizi interni del porto, dove possono contare sulle complicità e sul supporto di tecnici e di lavoratori per le operazioni di transhipment della droga dai container a terra» 5.

Per quanto riguarda il sottovalutato commercio di merci contraffatte, secondo la Direzione nazionale antimafia il mercato della contraffazione vede ormai una presenza pressoché paritaria di criminalità italiana e straniera, con «una pericolosa interazione tra gruppi criminali di origine straniera e gruppi criminali italiani» 6. La camorra esercita un ruolo egemone rispetto alle altre organizzazioni mafiose, risultando protagonista di tutte le fasi di cui si compone la filiera del falso (produzione, commercializzazione, esportazione) 7. Quanto alla ’ndrangheta, il suo coinvolgimento appare riconducibile al ruolo di Gioia Tauro quale canale d’ingresso delle merci provenienti dall’Asia sud-orientale. Nel porto si possono trattare anche reperti archeologici trafugati dallo Stato Islamico, il cui trasporto è delegato alla criminalità cinese 8.


3. Forte condizionamento ambientale, alta litigiosità tra gli azionisti dell’unica società concessionaria, incertezze burocratiche, difficoltà di collegamento, opere progettate la cui realizzazione tarda, incertezze nella gestione dello scalo. In un contesto di concorrenza globale, perché puntare ancora su Gioia Tauro? Per quanto tempo ancora possiamo considerare Gioia Tauro uno degli attori fondamentali del mare nostrum?


Carta di Laura Canali, 2011

’NDRANGHETA INTERNATIONAL

Carta di Laura Canali, 2013.

Le ’ndrine calabresi, forti di una struttura coesa e replicabile, hanno scalato le vette del crimine organizzato. La penetrazione nel Centro-Nord. Il radicamento oltreconfine. Le nostre norme antimafia all’estero se le sognano, ma spesso le usiamo male.

1. La ‘ndrangheta resta a oggi l’organizzazione mafiosa più forte e radicata in Italia e in numerosi paesi stranieri, capace di gestire enormi partite di cocaina e di altri stupefacenti.

Le recenti operazioni dei magistrati calabresi e di altre procure antimafia del Centro e del Nord Italia hanno scompaginato molte ’ndrine, ma non sono riuscite a sradicarle dal territorio d’origine (la Calabria) né da quelli di più recente insediamento, tanto al Centro-Nord come in molti paesi stranieri. A cominciare da quelli europei, strategici sia per le rotte della cocaina che per il riciclaggio del denaro. Gli ’ndranghetisti, seppure fortemente colpiti dalle indagini degli ultimi anni, continuano ad agire in questi territori. Come mai? Cosa li rende così potenti e capaci di radicarsi nei contesti in cui operano?

È utile partire dalle parole ascoltate nel corso di un’intercettazione ambientale. Parole per molti versi incomprensibili, almeno a una prima lettura, eppure molto importanti: «A nome della società organizzata e fidelizzata battezzo questo locale per come lo battezzarono i nostri antenati Osso, Mastrosso e Carcagnosso che lo battezzarono con ferri e catene. Io lo battezzo con la mia fede e lunga favella. Se fino a questo momento lo conoscevo per un locale oscuro, da questo momento lo riconosco per un locale sacro, santo e inviolabile in cui si può formare e sformare questo onorato corpo di società».

Queste formule appartengono a un rituale della ’ndrangheta per l’ingresso di un giovane e hanno un grande valore simbolico: attestano l’alterità degli ’ndranghetisti, gli unici ad avere accesso ai segreti dell’organizzazione. Per questo il luogo fisico dove si sarebbe svolta la cerimonia d’iniziazione doveva essere simbolicamente liberato dalle presenze spurie. Fatto ciò, si passa alla cerimonia vera e propria, che prevede altre parole rituali. Per tre volte il capo chiede il consenso dei presenti all’ammissione del giovane «all’onorata società». Le formule non sempre coincidono; in alcune ’ndrine è prevista l’incisione del dito del giovane aspirante e il simbolico versamento del suo sangue.

Di costante vi è il fatto che l’ingresso nella ’ndrangheta passa per un battesimo rituale: non c’è altra strada per chi voglia diventare uomo d’onore. Tutti gli altri restano esclusi, inesorabilmente. Il rituale affonda le sue radici nel passato ancestrale della ’ndrangheta, la cui mitologia assegna ai tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso – rintanati nelle grotte della Favignana per trent’anni – la creazione delle regole che presiedono al funzionamento delle mafie contemporanee.


2. La peculiarità della formula iniziatica di cui sopra è che essa è stata pronunciata in un bar di Singen – una località tedesca ai confini con la Svizzera – il 20 dicembre 2009. Due anni prima, a ferragosto del 2007, la strage di Duisburg aveva fatto conoscere ai tedeschi e a tutto il mondo la potenza distruttiva e violenta della ’ndrangheta, capace di seminare morte in località molto lontane da San Luca, il comune dell’Aspromonte dove erano nati gli uomini uccisi quella sera all’uscita da un noto ristorante. Quando i poliziotti perquisirono i cadaveri fecero una scoperta illuminante: nelle tasche di un giovane fu trovato un santino bruciacchiato, segno che quella sera aveva festeggiato la sua affiliazione rituale.

Le parole pronunciate a Singen ricalcano quelle del «battesimo» di Serafino Castagna, un giovane di Presinaci (frazione di Rombiolo, provincia di Vibo Valentia). Il giovane ha descritto la sua affiliazione con gli ’ndranghetisti riuniti «a cerchio formato», con il capo della ’ndrina in veste di officiante: «Io lo battezzo come lo hanno battezzato i nostri tre cavalieri di Spagna…i nostri tre cavalieri che dalla Spagna sono partiti… se loro hanno battezzato con ferri e catene, con ferri e catene lo battezzo io… se loro hanno battezzato con carceri scuri e carceri penali, con carceri scuri e carceri penali lo battezzo io». Queste parole furono pronunciate la prima volta il 7 aprile 1941: la permanenza dei rituali a distanza di tanti anni è impressionante, anche perché avvengono in contesti lontani nello spazio, oltre che nel tempo.

Di recente – estate 2010 – le operazioni Crimine e Infinito delle procure di Reggio Calabria e Milano hanno evidenziato, attraverso numerose intercettazioni, come si continuasse a «battezzare» i nuovi arrivi facendo riferimento ai cavalieri spagnoli e come gli uomini della ’ndrangheta avessero una particolare predisposizione per le «doti», le cariche formali che sembrano crescere continuamente e che servono a definire la collocazione ai vertici della ’ndrangheta.

La cerimonia di Singen è più importante di altre perché, dopo Duisburg e dopo le indagini della polizia tedesca, mostra come i tentacoli della ’ndrangheta siano sempre forti e come essa continui a clonare la propria struttura organizzativa lontano dai luoghi d’origine. È una particolarità della ’ndrangheta che si ripete ovunque: all’estero le regole di comportamento di un buon mafioso sono identiche a quelle in uso in Calabria.

Altra particolarità della mafia calabrese è che le sue proiezioni nazionali o estere, per quanto forti economicamente e numericamente, dipendono sempre dalla casa madre in Calabria. Gli uomini di ’ndrangheta che abitano all’estero, quando hanno problemi che non riescono a risolvere diversamente, scendono in Calabria, perché lì c’è qualcuno in grado di dirimere controversie.

Uno di quelli venuti apposta in Calabria è Domenico Antonio Vallelonga, detto Tony, che avrebbe discusso di assetti della ’ndrangheta a Siderno con Giu­seppe Commisso, u mastru che considera Vallelonga «persona seria». Vallelonga è stato sindaco della cittadina australiana di Stirling per quattro mandati consecutivi, dal 1997 al 2005; è stato esponente di vari consigli regionali e presidente di associazioni locali, di comitati comunitari e di alcune associazioni di cittadini italiani. È originario di Cassari, minuscola frazione di Nardodipace, piccolo comune che sorge nel cuore delle Serre, in provincia di Vibo Valentia.

Vallelonga fa parte di quella sterminata schiera di calabresi emigrati quaranta o cinquanta anni fa in molte parti del mondo, inclusa l’Australia, dove c’è una folta comunità calabrese. Di questa s’era occupato anche Nicola Calipari, che da giovane funzionario di polizia aveva spiegato alle autorità australiane le attività degli ’ndranghetisti, da non confondersi con i calabresi onesti.


3. Queste vicende sembrano confermare la sostanziale analogia tra quanto accade nel Nord Italia e all’estero e le dinamiche dei comuni di provenienza degli ’ndranghetisti, i quali clonano la struttura mafiosa ricreando non solo le strutture organizzative ma anche lo stile di vita, le relazioni sociali, i riti delle terre d’origine. Non è solo o tanto nostalgia di questi luoghi o del passato, quanto bisogno di sicurezza: questi mafiosi trapiantati hanno necessità di riprodurre meccanismi collaudati, gli unici in grado di garantire coesione e funzionalità dell’organizzazione da cui essi traggono protezione e sostentamento.

La ritualità apparentemente ossessiva e la clonazione della struttura primigenia sono i punti di forza della ’ndrangheta, che nel corso degli ultimi anni s’è affermata come l’organizzazione criminale più forte, affidabile e radicata. È più affidabile verso le organizzazioni colombiane e tutte le altre che hanno a che fare con il traffico di stupefacenti: transazioni e accordi si fanno a voce e dunque conta la parola, la fiducia, l’affidabilità di chi tratta. È diventata affidabile perché non ha avuto collaboratori di giustizia tali da compromettere affari da milioni di euro, nei quali la capacità di mantenere il silenzio vale oro.

È poi l’organizzazione più radicata perché, avendo una struttura familiare, riesce a spostare ovunque pezzi delle ’ndrine trasferendoli nel territorio prescelto, dove i nuovi arrivati stabiliranno relazioni e rapporti con i residenti. Gli stessi cognomi presenti in Calabria si inseguono nei luoghi di diffusione. L’importanza della famiglia è data dal fatto che ogni ’ndrina è conosciuta dal cognome del capobastone, mentre nella mafia siciliana è conosciuta dal paese o dal quartiere della grande città. Nel giro di pochi anni i mafiosi appena arrivati riescono a mimetizzarsi nel nuovo ambiente e a condurre una vita apparentemente tranquilla, senza destare allarme sociale e senza richiamare l’attenzione degli inquirenti.

Il basso profilo, l’evitare omicidi e violenze sono le modalità migliori per sviluppare diversi affari: dal narcotraffico al riciclaggio, dall’acquisto di immobili alla penetrazione nel campo della sanità, dalla ristorazione all’edilizia.

Questo enorme volume di affari, sviluppato in tutte le regioni del Centro-Nord e all’estero, ha portato le ’ndrine a creare forme di collegamento e di dire­zione più impegnative rispetto al passato. Questo spiega lo sforzo degli ultimi volto a creare una struttura unica di gestione degli affari criminali, pur rispettando tutti i canoni ’ndranghetisti: una ’ndrangheta unitaria e capace di risolvere i problemi che continuamente insorgono in organizzazioni del genere era necessaria proprio per le aumentate dimensioni economiche e per la posta in gioco connessa alle decisioni davvero rilevanti.


4. Non c’è dubbio che la ’ndrangheta abbia un ruolo assai rilevante in Italia e un profilo globale di tutto rispetto. Ormai si muove con naturalezza su tutto lo scacchiere internazionale intessendo rapporti, realizzando affari e alleanze. Le analisi convergono nel mettere in luce questi elementi: non sono solo studiosi, ma anche magistrati e forze dell’ordine a indicare le evoluzioni recenti. Tra queste c’è il fatto che la ’ndrangheta si muove con naturalezza anche perché ha scoperto di essere meno vulnerabile al di fuori del contesto calabrese, dove pure esprime la maggiore capacità di controllare il territorio. A cosa si deve questa evoluzione?

Innanzitutto al fatto che nelle regioni del Nord molti tribunali non applicano il 416 bis (l’articolo del codice penale che riconosce l’esistenza della struttura mafiosa). Anche alcune recenti pronunce della Cassazione in merito a sentenze del tribunale di Milano si sono mosse nella medesima direzione. Basti citare la sentenza del 7 giugno 2013, con la quale la Corte ha cassato l’articolo 416 bis nel processo denominato Parco Sud e riguardante la ’ndrangheta di Buccinasco, paese alle porte di Milano noto per le numerose indagini che hanno colpito le ’ndrine locali soprattutto tra il 1992 e il 1994. In seguito a questa pronuncia è stato subito scarcerato Domenico Papalia, figlio del più famoso Antonio Papalia, oggi ergastolano.

Alcuni magistrati argomentano che è difficile provare la forza intimidatoria del vincolo associativo e dunque sono meno propensi a condannare per certi reati senza riconoscere ad essi l’aggravante dell’associazione mafiosa. Altri sollevano il problema dell’articolo 416 bis, pensato per una realtà come quella siciliana del 1982 quando la mafia non aveva significative presenze al Nord e all’estero. Nessuno, d’altra parte, poteva immaginare a quel tempo l’evoluzione più recente del fenomeno e l’avanzata strepitosa che ha avuto negli ultimi anni.

È un problema che riguarda la cultura dei magistrati del Nord, i quali non sempre riescono a leggere con gli occhiali giusti una realtà apparentemente tranquilla, ma in realtà pesantemente condizionata da un clima di paura e di omertà, come mostrano le ritrattazioni in dibattimento da parte di imprenditori importanti, tutti originari del Nord e dunque cresciuti in contesti privi della cultura dell’omertà.

Negli ultimi anni s’è venuta a determinare una situazione affatto nuova, essendo aumentati – e di molto – coloro che non denunciano e non trovano il coraggio di ammettere davanti al magistrato quanto hanno appena detto in una telefonata intercettata. È una situazione molto particolare, che se non viene affrontata di petto rischia di trasformare il Nord in una zona franca per i mafiosi.

Ciò avviene mentre in quelle regioni gli ’ndranghetisti si stanno impadronendo di alcuni segmenti dell’economia (in particolare l’edilizia e il trasporto di materiale inerte) e immettono liquidità nell’economia legale, in condizioni di forte restrizione del credito bancario. I mafiosi, in particolare gli ’ndranghetisti, non hanno problemi di liquidità.

Il maggior problema dei paesi stranieri, a cominciare da quelli europei, è invece l’assenza di una legislazione antimafia paragonabile alla nostra. In nessun ordinamento esiste un articolo simile al 416 bis e tanto meno c’è la possibilità di sequestrare e confiscare i beni acquisiti in forme criminali o illegali. Tutto ciò favorisce gli uomini di mafia, che possono agire in modo più spedito e sbrigativo perché il contesto e la storia di quei paesi glielo consentono. Un crimine globale capace di agire su scala planetaria non può essere contrastato con legislazioni vecchie, che non tengono conto della progressiva diffusione del fenomeno mafioso ben oltre le zone d’origine.

Negli ultimi tempi s’è aperta una discussione a livello europeo e si sono approvati strumenti nuovi d’indagine e d’intervento. Ma l’impressione generale è che si faccia fatica a far comprendere la reale natura e la pericolosità del fenomeno mafioso, soprattutto in campo economico e finanziario. I mafiosi stanno facendo passi da gigante anche perché hanno la capacità di entrare in contatto con le zone grigie dell’economia internazionale, là dove s’incrociano i flussi illegali della corruzione, del riciclaggio, dell’evasione fiscale. Un mondo opaco e poco trasparente: una manna per gli ’ndranghetisti e per tutti gli altri mafiosi.

È riflettendo su tutto ciò che si rende necessario un cambio di passo nella lotta alle mafie sul piano europeo.

I mandamenti di Cosa Nostra

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“L’esercizio di un dominio su spazi territoriali, economici e culturali è effettuato in forma cooperativa, competitiva o conflittuale. Ne sono attori principali gli Stati e altri soggetti, che con i primi concorrono limitandone di fatto la sovranità.


Le mafie possono vantare un rilevante capitale di potere geopolitico, tangibile e intangibile: la forza militare, ovvero la capacità di dominare e difendere il territorio da altri competitori e dalle stesse istituzioni detentrici del potere formale; il potere normativo, esercitato dotandosi di regole che valgono sia nei confronti dei membri dell’organizzazione, sia degli estranei che a vario titolo possono interferire con l’interesse mafioso; il potere giurisdizionale, ovvero la facoltà di giudicare e sanzionare in modo efficace, rapido e inappellabile le violazioni delle regole ad opera degli associati e degli estranei. […]


In certi contesti geopolitici le mafie sono giunte così anche a determinare o estinguere conflitti, a fare e disfare alleanze, ridisegnare confini. Le vere mafie possono poi contare su forme immateriali di potere: il prestigio sociale e culturale conquistato tramite la dipendenza economica dall’organizzazione dei territori poveri, nonché proposta di modelli di successo sociale ed economico. È poi fattore di potenza determinante nel confronto strategico con gli altri avversari (legali e non) e con le forze istituzionali la coesione interna del soggetto, la fedeltà dei coscritti all’interesse dell’organizzazione, la lealtà a un progetto economico, sociale, politico, esistenziale.


Se è vero che non tutte le formazioni criminali comunemente dette mafia sono davvero tali, è utile proporsi forme di classificazione delle mafie in termini geopolitici, una tassonomia mafiosa fondata sul doppio criterio strutturale-ontologico e relazionale, utile a comprendere il potere geopolitico che le varie società criminali esercitano nel sistema mondiale. Osservandone la struttura interna si scopre che il primario modello mafioso, particolarmente di Cosa Nostra e della ’ndrangheta, non trova corrispondenti se paragonato ad altre collettività criminali, anche di grande rilievo.”


La Sicilia “amministrata” secondo i mandamenti di Cosa Nostra. Nelle tonalità del viola quelli della regione di Palermo, in arancio quelli di Trapani. Le basi centrali dei mandamenti provinciali, delle cosche mafiose e l’estensione della rete della stidda.


Nell’entroterra catanese un conflitto di competenza territoriale divide 2 grandi famiglie mafiose, mentre poco più a sud le cosche di Palagonia e Scordia sono opposte a quelle di Francofonte e Lentini.

 

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